Ecco il racconto del gestore del Rifugio Selleries, Massimo Manavella …
Oggi avremo raggiunto le 9 settimane di Selleries chiuso per la Pandemia. Cosa possa raccontare un rifugio chiuso non ne abbiamo bene l’idea.Sulla fine un deposito di mercanzia e faccende umane, senza umanità in circolazione ha poco senso di essere, gli viene a mancare la sua funzione: il suo scopo.
Ma non immaginiamocelo con le ragnatele ed il mobilio coperto da lenzuola impolverate, come le vecchie ville ottocentesche che di tanto in tanto compaiono in qualche lungometraggio inquietante. Una volta, venendo via dal Monte dei Cappuccini a piedi, mi capitò di passare davanti alla villa nella quale venne girato Profondo Rosso, osservandola me la immaginai proprio così al suo interno. Ecco, il rifugio chiuso non è quella roba lì. In 9 settimane di primavera a 2.023 metri di quota, ragnatele non se ne sono formate e le lenzuola su tavoli e sedie non sono state messe, di polvere posata sulle bottiglie esposte sopra le mensole non ce n’è: forse è merito della quota, un po’ come per le “camole”, i tarli del legno, quassù non ci sono e tutti i mobili che abbiamo recuperato quando siamo arrivati qui, quattordici anni fa ormai, non presentano nemmeno un piccolo foro.
Nei giorni di metà maggio 2020, come negli stessi del 2006, il silenzio consente di sentire gli zoccoli dei camosci e degli stambecchi che cammino sulle pietre del mosaico del terrazzo. Oggi ci sono i tavoli che noi abbiamo installato negli anni, allora il terrazzo era completamente sgombro. I camosci sono ritornati dopo una ventina di giorni, dal 10 marzo che fu il giorno della chiusura, mentre gli stambecchi sono arrivati solo tra fine aprile e primi di maggio: prima non si vedevano affatto e non ne capisco il motivo. Un giorno, forse proprio il primo maggio, c’era un bel sole caldo ed è un’anomalia perché abitualmente non è mai sereno, anzi quasi sempre nevica: per fare una verifica, basta andare sulla pagina Face Book del Rifugio Selleries, sul primo maggio, e scorrere indietro negli anni, per trovarvi, sempre, foto con una bella ginocchiata di neve. In ogni caso quest’anno c’era un bel sole, io seduto a mangiare il risotto ai funghi che mi ero preparato, ad un certo punto sento un colpo forte, un PAACK! che non avevo mai sentito proveniente dall’esterno, dal terrazzo; appoggio la fronte al vetro della finestra per guardare meglio fuori e vedo due maschi di stambecco, uno di fronte all’altro, alzarsi sulle gambe posteriori, quasi a volersi mettere in posizione eretta, stile umano, per poi lasciarsi cadere in avanti, l’uno verso l’altro, a far schiantare corna e teste con una discreta forza. Il rumore è sordo e mi fa domandare come la loro testa non inizi a suonare dentro e non sia causa di alcun barcollamento. Sia come sia, il rituale continua per un bel po’. Senza alcuna preparazione scientifica ed alcuno studio al riguardo, mi arrogo il diritto di pensare che non stiano affatto litigando, che non si stiano sfidando e che non siano per nulla arrabbiati l’uno nei confronti dell’altro. Ritengo che non si tratti nemmeno di un gioco. I loro movimenti sono quasi ritmici e ripetitivi come una sorta di danza senza musica, per questo motivo definisco questo confronto nel quale i due stambecchi erano impegnati, un rituale: ma non sono un esperto faunista, quindi il giudizio che esprimo vale ben poco.
Il rifugio senza genti è un po’ questa roba qua. Nessun rumore e niente polvere, nemmeno una ragnatela, quindi neanche un elemento che dia una minima ambientazione utile al lavoro di Dario Argento. In montagna anche l’assenza di attività umana prende dimensioni differenti, rispetto alla città, la quota è probabilmente la causa del diverso modo in cui si svolge ogni cosa: le camole, la polvere e le ragnatele non ci sono proprio, forse per il fatto che siamo troppo in alto. Il paradosso è che per indicazioni e dogmi Asl, in rifugio come in qualsiasi altro locale pubblico, bisogna installare degli spruzzatori per prevenire mosche e zanzare, ma di fatto non se ne vedono mai: ce ne sono un bel po’, di mosche, per alcuni giorni quando arrivano le mucche, a metà giugno, ma in poco tempo, poi, scompaiono. Forse tornano a valle perché manca loro il fiato, ma siamo di nuovo lì, faccio delle supposizioni che non sono in grado di confortare con dimostrazioni serie e concrete. Un fischio acuto di marmotta squarcia il silenzio, metro scrivo questi pensieri che non ho ancora ben capito dove mi stanno portando, un altro fischio risponde più in lontananza, poi un altro ancora; ieri mi è capitato, per caso, di assistere ad una rincorsa di tre marmotte che si precipitavano giù lungo il pendio di fronte al rifugio, le ho seguite con lo sguardo senza capire, anche in questo caso, il motivo di quel loro inseguirsi, poi sono entrate in una delle tante tane sotto alle rocce ed ho immaginato che le loro questioni sarebbero proseguite, inseguendosi dentro ai cunicoli sotterranei. Le rocce delle tane delle marmotte si trovano a ridosso del pianoro che funge da piccolo cortile delle Cà d’Vanda, esattamente di fronte al rifugio, sul versante opposto della conca dell’Alpe Selleries. Si tratta di tre piccole baite che furono il primo alpeggio costruito nella conca, la loro posizione è frutto, secondo me, di un’attenta osservazione del luogo: quell’angolo è il punto dove, la sera, il sole dura di più e non abbiamo mai visto cadere nemmeno una piccola valanga, neanche negli inverni con precipitazioni più consistenti. La signora Vanda è stata la proprietaria storica di quelle casette e noi abbiamo avuto l’onore di conoscerla nei primi anni di gestione del rifugio, la settimana scorsa, il primo giorno in cui erano consentiti gli spostamenti, i nipoti sono saliti da Selleiraut per farsi una camminata: è significativo l’affetto che li lega a quelle baite, pur facendo tutt’altro nella loro vita.
Per tornare al rifugio senza genti, da rifugista gestore custode devo ammettere che è bello essere qui con nessuno intorno. Anche se adesso cominciano ad essere un po’ tanti i giorni… È una sensazione piacevole quando, dopo una giornata di lavoro intenso nella quale c’è stato un andirivieni a tratti forsennato, il rifugio si svuota. Le prime volte che si verifica questa condizione di rapido spopolamento, si è colti di sorpresa, perché tutto avviene in un attimo senza che ci sia modo di rendersene conto e, con sbigottimento, ci si accorge che non c’è più nessuno. Non è strano che accada, a pensarci un attimo la vita di ognuno ha ritmi ben più precisi di quanto siamo, tutti, disposti ad ammettere: il lavoro dal lunedì, quindi il fine settimana a disposizione, ma la domenica sera si deve rientrare, quindi ovvio che dopo le quattro del pomeriggio il rifugio si svuoti rapidamente. E nel momento in cui in rifugio cala il silenzio, esattamente in quell’istante, il rifugista torna ad essere padrone di sé stesso e dei suoi angoli preferiti, riprendendo possesso di piccoli spazi che fino ad un’ora prima erano a disposizione di persone arrivate, anche, da molto lontano: normalmente ci si siede ad uno dei tavoli approntandolo per la merenda. Se ci fosse qualcuno ad osservare, noterebbe una merenda strana perché non capirebbe se dolce o se salata, vedrebbe di tutto su quel tavolo, sia da bere che da mangiare. Per dovere di spiegazione devo precisare che, normalmente, capita che sovente la merenda sia in realtà il pranzo che non si è riusciti a fare e, tante volte, la cena che non si farà perché la merenda è andata a sballare lo stomaco, togliendoci la fame per quando sarà ora di cena. Sempre per dovere di spiegazione il “di tutto” sul tavolo è ciò che si raccatta mettendo insieme quello che è rimasto in cucina alla fine del servizio di pranzo, servizio che quasi sempre inizia una mezz’oretta prima di mezzogiorno e termina tra le quattro e le cinque del pomeriggio. Quindi la merenda serve anche per fare l’inventario in cucina, impostando il lavoro che dovrà prevedere chi vi è addetto.
Al Selleries nel momento in cui tutti i passanti frequentatori escono e quindi ritorna il silenzio, quasi fin da subito si ritorna a sentire Barba Giacou che passeggia occupato in chissà quali faccende: sempre le stesse comunque, perché i rumori si ripetono, sempre quelli.
Come dicevamo poc’anzi, Giacomo Berger è stato il costruttore di una parte del rifugio, quella più sostanziosa ed importante da un punto di vista di dimensioni, ma il primo rifugio, quello che oggi usiamo come magazzino e deposito, Monssù Berger lo comprò dal Club Alpino di Pinerolo e non sappiamo bene chi lo costruì. C’è una vecchia cartolina, risalente ai primi anni del ‘900, che ritrae un gruppo di sciatori all’esterno del vecchio rifugio, probabilmente, intenti a staccare le pelli di foca. A me piace pensare che tra loro ci sia Adolfo Kind e la mancanza di un primo piano dei volti mi consente di indugiare in questi pensieri: in fondo potrebbe essere plausibile, perché è proprio agli inizi del Novecento del Millennio scorso che Kind e compagni iniziarono le loro scorribande sugli sci e la Cima dell’Aquila della Val Sangone con la sua lapide commemorativa, non è poi così distante dall’Alpe Selleries. In linea d’aria sono solo una manciata di chilometri e la cima è quasi a vista.
Durante le pulizie nel periodo in cui avevamo appena aperto il rifugio, in soffitta ritrovammo una grossa insegna in metallo che indica: “Club Alpino Italiano. Sezione di Pinerolo. Grangia Rifugio Seleries. Altitudine m. 2.025”. Quasi sicuramente si tratta della prima insegna del rifugio. Fu una piacevole sorpresa perché costituì la prova ulteriore e definitiva del Passato come Struttura del Sodalizio, del Rifugio Selleries.
Se pensiamo che la costruzione della seconda parte del rifugio è stata terminata ed inaugurata nel 1922 è facile farsi un’idea del contesto nel quale il signor Berger intraprese la sua opera. L’Italia era uscita da pochi anni dalla Prima Guerra Mondiale ed era ancora molto provata dall’Epidemia della Spagnola scatenatasi in Europa a partire dal 1918, con milioni di morti. Erano i primi anni dell’Epoca Fascista che si era proposta al popolo italiano con l’intenzione di portare alla nazione un rinnovamento globale e con buona probabilità quest’aria e questa voglia di guardare ad un futuro migliore si respiravano anche in Alta Val Chisone. È bello permettersi di pensare che le aspirazioni positive dei poeti futuristi come Marinetti e Palazzeschi e dei pittori futuristi come Boccioni e Severini, in qualche maniera, fossero riusciti ad ispirare l’allora giovane Giacomo Berger. Pensandoci oggi che siamo in un’epoca nella quale è normale investire nel turismo, vediamo, comunque, molto coraggiosa l’iniziativa di costruire un rifugio completamente nuovo in un luogo decentrato e scomodo come l’Alpe Selleries: proviamo a contestualizzare questa sua decisione in un’epoca nella quale di turismo e rifugi alpini si parlava ben poco. Il nostro predecessore fu davvero un grande pioniere, con una capacità visionaria che, anche oggi, sarebbe una dote molto rara. A partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, la conca dell’Alpe Selleries venne collegata al Vecchio Sanatorio Agnelli di Prà Catinat con una pista sterrata che ancora oggi noi usiamo, ma ai tempi della gioventù di Giacomo Berger tutto ciò non esisteva affatto, quindi ci togliamo il cappello almeno un paio di volte quando ripensiamo a lui.
Non ho ancora riletto quanto scritto fino ad ora. Una serie di pensieri nei quali, con buona probabilità, è difficile trovare un filo conduttore che li colleghi, ma tutto mi è venuto fuori di getto, come se fossero fotografie tenute alla rinfusa ammucchiate dentro ad un cassetto, in attesa di essere aperto. Per questo motivo non ho dovuto impiegare molto tempo per strutturare questo mio scritto: erano fatti ed immagini che stavano, forse, aspettando da tanto di venir tirate fuori. Un po’ come dovunque in montagna, ci sono fatti accaduti e, purtroppo, dimenticati perché nessuno ha più avuto modo di recuperarli dalla polvere. Polvere che si ammucchia, soprattutto, nella nostra mente perché, come detto poc’anzi, nelle vecchie case montanare di polvere non ce n’è nemmeno poi così tanta.
Direi che per questa volta posso concludere, senza aggiungere altro. Ho già scritto persin troppo e, soprattutto, devo decidermi a sparecchiare i miei tre tavoli ed a lavare un po’ di piatti. Già! Tre tavoli, perché, siccome sono da solo, mi sono organizzato in modo da avere un tavolo per la colazione, uno per il pranzo ed uno per la cena: seguendo il sole. Nel senso che, siccome il Rifugio Selleries sta fermo e non gira seguendo il percorso del sole nel trascorrere delle ore, io mi sono organizzato in modo da fare i tre pasti sempre di fronte ad una finestra che abbia il sole che passa dai vetri, quindi cambio tavolo ogni volta per riuscire a stare il più possibile con il sole che mi batte in fronte.
Capisco e condivido il pensiero di coloro che ipotizzano un briciolo di follia, d’altronde, come dicevo prima, adesso cominciano ad essere un po’ tanti i giorni…
Massimo Manavella (Rifugio Selleries, 12 maggio 2020)