In questo momento difficile per la situazione emergenziale ecco un bel contributo dell’amico Carlo Crovella con le sue riflessioni circa il modo “maturo” di andare in montagna.
Sono sempre stato affascinato dai predatori. Predatori di terra, di mare e di cielo, di ogni dimensione e voracità. Leoni, tigri, falchi, aquile, orche e squali.
Gli squali suscitano in me una particolare attenzione, una specie di attrazione-repulsione. Incutono paura, a me come a tutti, perché sono delle veri killer naturali: macchine che l’evoluzione ha perfezionato per la caccia spietata.
Non tutti gli squali sono uguali, certo. L’immaginazione corre subito ai grandi squali bianchi, quelli che, per esempio al largo della punta meridionale dell’Africa, saltano fuori dall’acqua tanta è la propulsione e la forza che usano per catturare otarie e pinguini. Lo squalo è condannato dalla sua stessa natura ad essere squalo. E’ insaziabile ed è quindi sempre in movimento (tranne pochissime specie che sono state riprese nel sonno sui fondali). Muovendosi costantemente, consuma molto e quindi ha un appetito insaziabile. Insomma preda, cioè mangia, ed è condannato a muoversi per cercare altre prede, ma così facendo alimenta il suo appetito.
Vedo la natura degli squali come una maledizione divina, la pena biblica per la loro stessa forza naturale. La interpreto come una versione del mito di Sisifo, quel “poveretto” condannato a spingere un pesante masso su per un erto monte, ma giunto in vetta il masso scivola dalla parte opposta e lui deve ricominciare a spingerlo in salita, di nuovo fino in vetta dove il masso scivola ancora fino in fondo e così per l’eternità.
Anche per questo gli squali mi hanno sempre suscitato un po’ di tenerezza. Tanto forti e implacabili, ma condannati proprio dalla loro stessa natura all’eterna riproposizione delle loro azioni. Non possono riposarsi mai, non possono sfuggire ad una perpetua voracità che non si placherà finché respirano.
Mi è capitato di conoscere anche degli squali di montagna. Ovviamente si tratta di esseri umani e la voracità qui va intesa in senso figurato: non hanno ancora concluso la gita o l’arrampicata che già sono proiettati sull’uscita successiva. Sono divorati dalla loro stessa “passione” e danno l’impressione di non gustare il piatto del giorno perché già lanciati su quello di domani. Affetti da frenesia incontenibile che li divora dentro.
Non è detto che gli squali di montagna siano necessariamente alpinisti al top. Certamente gli alpinisti al top, i professionisti che hanno scelto di vivere solo di montagna, sono degli squali, salvo rarissime eccezioni. Ma esistono anche squali che, fra i cosiddetti “dilettanti della montagna”, si muovono su livelli medi: magari sono incalliti escursionisti/scialpinisti oppure dei modesti, ma impallinati, quartogradisti. Non è l’impegno tecnico che li contraddistingue, né quello atletico, anche se su questo versante è già più difficile che un vero squalo non sia roso dalla necessità di macinar dislivello (ultimamente conta non solo il dislivello assoluto, ma anche e soprattutto in quanto tempo lo fai).
Gli squali top climber, i professionisti, in genere sono personaggi pubblici e non sono certo una novità dei nostri tempi. Sono sempre esistiti e sempre esisteranno e anzi si deve proprio a questi squali di montagna l’evoluzione dell’alpinismo, in tutti i risvolti che il termine evoluzione può comprendere: violazione di limiti tecnici, di tabù ideologici, di barriere mentali ed atletiche. Gli squali top sono quindi fondamentali per l’alpinismo: senza squali top ci limiteremmo, ancor oggi, a timorose passeggiatine fuori porta. Se andiamo oltre, anche noi modesti dilettanti, è perché gli squali top del passato hanno spostato un po’ più in là le rispettive frontiere ideologiche e tecniche.
Che il concetto di squali di montagna (squali al top) non sia una novità nella mia mente, lo dimostra una dei mie primissimi tentativi di racconti di fiction alpinistica. Il testo è talmente grezzo nella sua genuinità che non è mai uscito dai cassetti informatici del mio pc. In poche cartelle sviluppa una micro trama in cui agiscono alcuni “squali” che dedicano la loro esistenza alla montagna, rinunciando a tutto il resto. Solo così spingono avanti la frontiera, ma pagano un prezzo non da poco. Il lettore scoprirà che uno di questi squali si chiama Giusto…Ma il tema delle mie attuali riflessioni è un altro: non ci s ono solo gli squali conosciuti al grande pubblico. Ci sono, come dire?, degli squali “locali”, gli squali di quartiere, cioè dei gran macinatori di montagna (estiva o invernale o trasversale, a seconda delle situazioni) che costituiscono il fulcro magmatico di certi gruppi di appassionati, trascinando amici e colleghi nelle uscite a ripetizione. Si pensi a certi “carismatici” direttori di scuole CAI (sia di roccia che di scialpinismo/escursionismo) oppure certi “fari” che condizionano l’attività di un’intera combriccola che ruota intorno a loro.
Nel loro giro umano, grande o piccolo che sia, questi specifici squali (squali di quartiere), con la loro insaziabile voracità di montagna, caratterizzano le esperienze e la crescita alpinistica di chi gravita nella loro orbita. Anche io nel mio piccolo ho attraversato una fase esistenziale in cui sono stato uno squalo. Forse più uno squaletto, una verdesca piuttosto che un grande squalo bianco, ma i denti nelle chiappe dei miei compagni e compagne di gita li ho piantati a fondo e ripetutamente. Sia con l’esempio delle uscite personali sia sul terreno quando la poltronaggine altrui (magari per tempo incerto, per scazzo, per paure varie…) stava per prendere il sopravvento.
La fase “squalesca” della mia esistenza si è assorbita da sé, spinta in posizione collaterale da mille altri interessi della vita (famiglia, figli, lavoro ecc). Probabilmente la mia natura non è così esplicitamente predatoria: preferisco funzionare da esempio attraverso altre modalità, per esempio scrivendo articoli, tenendo conferenze, battendo il ferro delle tematiche sul tavolo del giorno.
Ora mi è venuto naturale interrogarmi se l’allarme ambientalista circa gli squali di mare possa coinvolgere, in modo figurato, anche gli squali di montagna. Certamente lo sarebbe per gli squali al top, quelli che (per scelta, per talento, per casualità…) determinano l’evoluzione dell’alpinismo. Il fenomeno non può esser fermato e quindi è necessario che ci sia sempre qualcuno che “rompe” la frontiera e la sposta un po’ più in là. Preciso meglio che condivido questo principio, mentre non condivido, quanto meno non condivido a scatola chiusa, le modalità attraverso le quali, specie negli ultimi tempi, si “rompono” le frontiere costituite.
Discorso diverso per gli squali di quartiere, cioè gli sconosciuti (al grande pubblico) che macinano insaziabilmente montagna. E’ vero che costituiscono la spinta propulsiva del loro gruppo (o Scuola) di riferimento, ma da una ventina di anni a questa parte io sto assumendo una posizione sempre più critica nei confronti di queste figure. Mi interrogo sul valore “morale” del loro esempio: la cosiddetta “passione bruciante” è davvero un elemento positivo da divulgare? Sono giunto alla conclusione che non lo è, anzi che si deve insegnare a diffidare dalla “passione bruciante” per la montagna.
A me sembra piuttosto che tale passione sia una ”droga”, un qualcosa di irrinunciabile, senza la quale l’esistenza appare completamente “vuota”. Ma così diventa un elemento patologico: se hai bisogno di questa droga, non è che davvero la tua esistenza è vuota? Vuota perché il lavoro che fai non ti “prende” appieno, vuota perché il matrimonio ti ha ormai annoiato, vuota perché i figli ti sono indifferenti o addirittura fastidiosi… Allora la “passione bruciante” non è più un elemento positivo, ma la cartina di tornasole di una negatività di fondo.
Se la conclusione è questa, va da sé che gli squali di quartiere non solo non sono esempi da imitare, ma sono addirittura personaggi cui non si deve mai assomigliare. Mi sono quindi convinto che l’esempio di chi divora montagna non sia da segnalare come un valore, cioè un valore etico da ammirare.
Quante volte ho visto padri perdere la recita dei figli, la loro prima comunione, la loro festa di compleanno perché non hanno saputo resistere e sono “scappati” (sì!, “scappati” è proprio il termine azzeccato) a fare una gita, un’arrampicata, una corsa su per i bricchi! Parlo non a caso di “padri” perché il problema è tipicamente maschile: le donne, sagge moglie e mamme, sono più equilibrate di natura, sanno autoregolarsi e molto raramente cadono vittime di una passione bruciante che annienta.
E poi quante volte leggiamo ricordi di alpinisiti che non ci sono più “perché non hanno saputo resistere alla passione bruciante per la montagna”: fior di alpinisti esperti sono inciampati su creste facili o addirittura sui sentieri perché erano in affanno per non perdere, appunto, la recita dei figli, la loro prima comunione, la loro festa di compleanno. O assenti nell’occasione o assenti del tutto per il resto della vita: se questa è la “passione bruciante”, non è un valore positivo, ma una droga che va indicata come un esempio da NON seguire.
Nel nostro ruolo didattico di “istruttori”, la vera finalità è educare gli allievi, specie se giovani anagraficamente, ad un approccio equilibrato verso la montagna. Piuttosto che esaltare, anche solo implicitamente, la nostra o altrui passione bruciante, dobbiamo indicare un saggio equilibrio che consenta di amalgamare la montagna fra i mille impegni e risvolti della vita. E se questa impostazione comporta il “sacrificio” di muoversi uno o due o magari tre gradi sotto a chi è costantemente allenato (perché costantemente divorato dalla passione), beh… i due o tre gradi in meno, gestiti con maturità di intenti, siano il vero insegnamento ai nostri amici ed allievi.
Anticipo già chi insinuerà maliziosamente che queste mie riflessioni sono viziate da ragionamenti stile “la volpe e l’uva”. Siete lontani mille miglia dalla mia realtà. Sono ormai decenni che nel mio zaino non trova posto il cronometro né il goniometro (per i canali innevati dello sci ripido) né le relazioni con numeri arabi (cioè dal 6a in poi). Piuttosto, con indiscussa serenità d’animo, nel mio zaino ospito un binocolo, un taccuino per appunti, fogli bianchi per schizzi e disegni di montagne. All’ansia della vetta ho sostituito il piacere, a volte, di fermarmi a metà strada per osservare la montagna di fronte, come cambia durante il giorno. Cambiano i colori e cambiano i suoni: prima silenzio assoluto, poi scariche di sassi quando arriva il sole, poi di nuovo silenzio quando il sole si sposta.
Per tutti questi motivi, mentre combatto strenuamente a favore degli squali di mare, combatto con altrettanta determinazione contro gli squali di montagna: la passione bruciante è una droga e come tale è negativa e va invece insegnato ai giovani di inserire la montagna come un sano interesse armonico nella nostra vita di cittadini alacri, di padri affettuosi, di mariti attenti.
Due gradi in meno? Tre gradi in meno? Un’ora di più a parità di dislivello in salita? E’ un prezzo adeguato ed è sensato pagarlo.
Già pubblicato il 22 Settembre 2020 sul sito AltriSpazi