Intervista a Fredo Valla

Articolo di Cai-Uget Notizie di Novembre-Dicembre 2024:

Testo e foto di Fabio Di Gioia ONC

Fredo Valla (www.fredovalla.it) è regista e sceneggiatore che ha sempre osservato la montagna con occhio critico, ma anche poetico. Tra i suoi lavori ci sono le sceneggiature di “Il vento fa il suo giro” (2005), “Un giorno devi andare” (2013) “Volevo nascondermi” (2020) e “Lubo” (2023), tutti per la regia di Giorgio Diritti. Ha personalmente diretto, tra gli altri, “Valades ousitanes” (1997); “Medusa – Storie di uomini sul fondo” (2009); “L’assedio di Canelli” (2010) e “Bogre – la grande eresia europea” (2021). Lo incontro in un pomeriggio estivo. Mentre fuori imperversa il temporale, la stufa diffonde un gradevole tepore e le parole scorrono libere e leggere. Questo è il resoconto del colloquio.

“Fredo, montagna di tutti o per tutti?”
“Che sia di tutti è tautologico, che sia per tutti… parliamone un po’ meglio…”

“Proviamoci: cos’è la montagna e come vedi oggi il rapporto dell’uomo con essa?”
“Intanto, a costo di far storcere il naso a molti, occorre distinguere tra chi in montagna ci vive e chi no, dove per “vivere in montagna” intendo aver trascorso almeno un inverno, possibilmente con una famiglia da crescere e le incombenze ad essa legate quali scuola, spostamenti, servizi e (sperabilmente) lavoro. Aver affidato la narrazione dell’ambiente montano a soggetti estranei ha creato una distorsione enfatizzando aspetti che per gli abitanti sono marginali e non correlati al loro vissuto quotidiano. Va detto che, purtroppo, anche chi si sarebbe dovuto occupare della promozione e tutela di questi ambienti ha spesso contributo a tale distorsione. Quindi dare voce a chi vive in montagna è necessario per rifocalizzare correttamente la discussione, ma a patto che ci si ponga in ascolto senza preconcetti e sensi di superiorità, abbandonando la pretesa di fare i maestrini o i missionari e dando la disponibilità a concedere un po’ del proprio tempo per penetrare un po’ più a fondo quell’ambiente”.

“Secondo te questo canale di comunicazione oggi esiste?”
“Detto che un’alleanza tra i fruitori della montagna ed i suoi abitatori è necessaria, va anche detto che il dialogo spesso non esiste perché in questa montagna svuotata mancano i portavoce così come manca una classe dirigente rappresentativa di un territorio che, piaccia o no, copre il 70% della superficie del nostro Paese. Vedo due soggetti che non interagiscono: chi coltiva una (pur legittima) visione ricreazionale della montagna ed il “montanaro muto”, che con la sua rude dignità è mero accessorio paesaggistico”.

“Scusa la provocazione, ma il montanaro esiste ancora?”
“Lo svuotamento delle montagne di cui ti parlavo e che si può leggere anche nella predominanza delle reti stradali dirette verso la pianura a discapito dei collegamenti intervallivi, ha avuto tra i suoi effetti anche l’aver portato in pianura la parte migliore della popolazione alpina. Chi ha deciso di scendere a valle aveva maggiori doti di intraprendenza ed apertura rispetto a chi è restato: ti basti pensare che Daniele Mattalia, il preside del liceo Parini di Milano finito sotto processo nel 1966 per la famosa vicenda de “la Zanzara”, veniva da Elva. Generalmente va via chi ha voglia di migliorarsi. Chi resta finisce con l’appoggiare (ed appoggiarsi a) un modello turistico a cui oggi diamo valenza negativa. Inoltre, negli anni la crescita culturale delle popolazioni alpine ha subito una stasi anche perché è venuta meno la leva di interscambio e di conoscenza condivisa rappresentata dall’emigrazione stagionale. Quindi il montanaro esiste ancora, ma il semplice fatto che lui stia lassù non lo rende automaticamente il rappresentante ideale ad aprire l’auspicato ponte comunicativo”.

“Passiamo dall’altro lato: cosa pensi del popolo dei fruitori della montagna, sia esso organizzato in sodalizio o composto di soggettività non organizzate?”
“Intendiamoci: io non vorrei la montagna solo ripopolata, ma la vorrei con un’identità. Noi possiamo raccontare storie, ma le identità mutano. Il rapporto tra abitanti delle valli e lingue autoctone è indicativo: fino alla fine del secolo scorso il discorso identitario era imprescindibile dal discorso linguistico, oggi quasi nessun giovane usa più queste lingue. Guai, però, a voler cristallizzare identità e radici: dobbiamo essere consci che esse possono e devono essere contaminate. Il movimento escursionistico ed alpinistico invece ha colpevolmente contribuito al congelamento del concetto di tradizione attraverso un malinteso desiderio di esotismo. Un certo tipo di frequentazione della montagna ha portato in quota le storture del modello economicista imperante che, se già in pianura fa danno, in montagna fa sfracelli: l’infrastrutturazione dell’ambiente alpino deve voler dire creazione o ripristino di servizi essenziali, non facilitazioni per una fruizione di rapina dei luoghi. Alimentata da una narrazione spettacolare che purtroppo va per la maggiore, esiste un’aspettativa nei confronti della montagna che è in sé sufficiente ad arrecarle danno: la mistica del vino e della polenta è nociva quasi quanto le frane e lascia intendere che al di fuori di vino e polenta ci sia un deserto. In questo i sodalizi possono avere un ruolo. Il CAI, ad esempio, dovrebbe condurre per mano i propri soci ad una conoscenza approfondita della montagna, dei suoi problemi e delle sue opportunità che vanno al di là del sentiero, del rifugio, della cima, dell’escursione: parliamo meno di escursionismo ed alpinismo e più di cultura ed economia alpine”.

“Ma tu ritieni che la limitazione degli accessi all’ambiente montano possa essere una soluzione?”
“Potrebbe essere una strada, così come l’adozione di strumenti abilitativi, ma non è applicabile a tappeto ovunque. Preferirei un processo educazionale quale quello di cui abbiamo appena parlato. Poi è probabile che alcune scelte occorra farle, anche se impopolari: bene la navetta per Pian del Re, ma con prenotazione a numero limitato evidenziando la motivazione per cui sali e segnalando le fragilità che potrai incontrare. Ma lavoriamo anche sul problema della consapevolezza di sé: se non ce la fai ad andare là, non ci vai, e non per questo vali meno. Non è necessario che chiunque possa arrivare ovunque: fai cose alla tua portata in cui vivi la montagna (e te stesso) nella verità”.

“Tu prima hai citato le opportunità che ti offre la montagna. Puoi fare qualche esempio?”
“Ci sono giovani che vengono (spesso “vengono”, quasi mai “ritornano”) per intraprendere attività casearia o agricola che, comunque, quasi sempre svolgevano già altrove. Sono “nuovi montanari” votati all’agricoltura rigenerativa ed all’accoglienza turistica empatica, tutti accomunati dal fatto di voler “restituire” qualcosa alla comunità che li ha accolti. Sono piccole realtà distanti dalle economie di scala. Coltivano segale per il panificio di fondovalle o cereali per il birrificio della valle adiacente, ma, per sopravvivere, rischiano di dover cedere alle sirene della grande distribuzione perché quel pane e quella birra sono oggettivamente più cari di ciò che ti offre il supermercato e non tutti sono disposti a spendere di più, sia per problemi oggettivi di potere di acquisto che per la perdita della capacità di vedere il valore reale che sta dietro al prezzo. Anche la pratica dell’attività lavorativa da remoto può essere un’opportunità, ma non rappresenta una soluzione perché in un paese deve esserci un tessuto sociale e produttivo in tutte le sue possibili articolazioni e (perché no?) contraddizioni”.

“Le istituzioni possono avere un ruolo in tutto ciò?”
“Chi ha deciso di salire in montagna per viverci spesso lo ha fatto contro ogni logica, contando solo sulle proprie forze. I giovani di cui parlavo prima hanno forme di aggregazione e rappresentanza che noi non siamo capaci di vedere. Nutrono scetticismo nei confronti della politica, delle cooperative o dei sindacati ed in questo sono in tutto e per tutto figli e figlie dei tempi, ma, a mio parere, è necessario che trovino forme di aggregazione solidaristiche che, oltre ad appartenere storicamente al popolo della montagna, consentano loro di avere un peso nel rapporto con le istituzioni”.

“Riassumendo, potremmo dire che una maggior conoscenza è la chiave della tutela dell’ambiente montano?”
“La conoscenza è necessaria, ma non sufficiente: devono seguire comportamenti conseguenti da parte di tutti i soggetti coinvolti ed una consapevolezza generalizzata del fatto che la risoluzione di alcuni problemi della pianura passa attraverso un reimpossessarsi intelligente della relazione uomo-montagna, da reinventarsi alla luce di quanto sta accadendo (e non mi riferisco soltanto ai cambiamenti climatici)”.