Trekking nelle
“ALPI CARNICHE E GIULIE”
da sabato 3 a venerdì 9 settembre 2022
Il tempo del viaggiare, breve o lungo che sia, è un’umana benedizione che va restituita con riconoscenza, usando i poveri mezzi che si possiedono: quindi ne vorrei anche ora scrivere, pur se in forma di piccole impressioni, di frammenti di emozioni. Scrivo inoltre per me stesso, perché so bene quanto i ricordi si consolidino – qualcuno addirittura afferma: si costruiscano – raccontandoli.
Nei sette giorni appena trascorsi in Friuli, tra montagna e pianura, molti di quei nomi noti fin dai tempi della scuola elementare, nomi legati (come forse pochi altri in Italia) all’inestricabile connubio tra Storia e Geografia, hanno preso finalmente aspetto materiale, e hanno stabilito tra loro collegamenti che li rendono come un solo corpo tangibile, vitale e memorabile: un corpo che – è una banalità dirlo – nessuna carta geografica e nessun libro, pur studiato con profondo interesse, può rivelare. Sono nomi che “prendono forma” non in tre, ma in quattro dimensioni, perché il tempo della nostra vita in cui li si incontra ha un valore fondamentale. La quinta dimensione, se vogliamo, è poi quella sonora: in questo caso offerta dalla Lingua Friulana, così preziosamente musicale.
Prendono, dunque, una loro carnalità la Carnia, le Alpi Giulie, Tarvisio, la piana di Camporosso in cui vennero sconfitti gli Ottomani e dove tutte le acque cominciano a scorrere verso la Drava e “verso il Ponto”, come suggestivamente evoca il nostro accompagnatore Raoul. La destinazione finale delle sorgenti che sgorgano sugli spartiacque del continente pare offrire una riflessione valida per molti casi della vita: come un iniziale minimo divario possa generare immani differenze.
Traccerò qualche pennellata, senza rispettare una precisa sequenza temporale.
Si ascoltano, da parte dei nostri accompagnatori del CAI FVG, parole che alle orecchie dell’ovest suonano quasi oniriche: tra tante, scelgo – non saprei perché – la catena delle Caravanche tra Carinzia e Slovenia.
Si osserva in un pomeriggio, alla fiera di Sutrio, una ragazza abbigliata da ape, che disinvolta su alti trampoli vorrebbe intervistare anche noi un po’ intimidi turisti: il giallo del suo abito offre un’indimenticabile macchia di colore che spicca tra la folla.
Appare, improvvisa dal finestrino, la sbalorditiva ampiezza – chilometri? – dell’alveo del Tagliamento, qui prossimo alla sua confluenza, ora quasi completamente secca, con il Fella che, pure lui dotato di un alveo grandioso, discende dalla val Canale.
Dopo una passeggiata verso il Kolovrat, già in Slovenia, si osserva dall’alto – con emozione – lo sbocco famoso di valli dove è ubicata Caporetto: laggiù un giovane Rommel nel 1917 si procurò grandi meriti a nostro danno, e una dodicesima divisione slesiana, con una marcia impressionante, sfondò le difese italiane: che pur ben combatterono, malgrado quel che poi si disse. La nostra guida locale a Caporetto, che abita nelle valli del Natisone, non nasconde le sue riserve sul plebiscito con cui il Friuli venne annesso all’Italia nel 1866. Il personaggio è forse da prendere con le pinze, ma è pur vero che la Storia in questi luoghi si è talmente soffermata e agitata, che un qualcosa di irrisolto nell’aria pare rimanere: d’altra parte le vicende geologiche, che sono particolarmente interessanti qui in Friuli sopra e sotto il suolo, ci ricordano come i tempi delle faccende umane, per esempio il per noi fondamentale “secolo breve”, siano molto meno che un battito di ciglia.
Discesi nuovamente in pianura, compare Cividale longobarda con il suo Ponte del Diavolo: è diversissimo l’aspetto, ma è analoga la leggenda, rispetto al nostro ponte piemontese di Lanzo. Vediamo le locandine del Mittelfest che è in corso e che ci ricorda il nostro essere appunto già in Mitteleuropa.
Seguirà, in un altro giorno, l’incredibile Venzone, in una strettoia tra le montagne e il Tagliamento, destinata dalla sua geografia a essere, durante i secoli, una frontiera inaggirabile per eserciti, pellegrini e commercianti tra il Norico e l’Adriatico, lungo il tracciato dell’antica via romana: una cittadina, patrimonio Unesco, che è stata restaurata filologicamente, numerando pietra per pietra, dopo il terremoto del 1976.
Qualche giorno dopo ci appare Aquileia, che si riesce a visitare pur sotto un memorabile uragano. La Storia anche qui si fa carne viva. Nel 1914 l’uno, nel 1915 l’altro, due giovani andarono entrambi a combattere: si conoscevano e abitavano vicini, nella medesima terra ma ai due lati di un confine precario. Andarono in guerra su fronti opposti, il soldato in divisa austroungarica a Verdun, quello in divisa italiana sull’Isonzo; entrambi sopravvissero, misero su famiglia – e da loro, si direbbe biblicamente, discese Sara: la brava guida bionda che ci sta illustrando ora, sotto l’ombrello, i magnifici mosaici della basilica. La vicenda delle due diverse divise un po’ mi ricorda la sorte delle sorgenti sugli spartiacque.
Pochi chilometri dopo, ecco Grado – una meta che avevo in mente fin dalla mia partenza, una perla balneare del vecchio Impero dove si parlavano undici lingue – che però si rivela inaccessibile alla nostra corriera, per l’acqua alta che ha invaso il centro della città in una giornata che non è benedetta dagli déi del meteo. Vedo dal finestrino che soltanto gli intrepidi austriaci della ciclopista Alpe-Adria (Salisburgo – Grado) osano entrarvi, blindati nelle loro mantelline blu.
Palmanova, la cittadella veneziana dove poi è ci riapparso il sole, impressiona per il suo disegno architettonico forse leonardiano, ma non stupisce troppo noi sabaudi che siamo abituati a cittadelle e città militaresche.
La sede stabile delle escursioni è Udine, con i suoi monumenti e la sua bella gioventù, la quale giustifica pienamente il famoso canto simbolo del Friuli. Nel mio piccolo, ho accolto in questi anni a Torino una moltitudine di turisti udinesi che hanno sempre dimostrato di apprezzare la capitale sabauda, più ancora di altri. Come in una singolare simmetria di affetti tra ovest ed est, ora io posso ricambiare, non senza emozione.
L’albergo di Udine è confortevole, il personale è gentile e soprattutto cordiale, come lo sono tutti i passanti ai quali volutamente chiedo spesso la strada. Osservo con compiacimento la bella vasca da bagno con doccia, nella mia stanza 230. Non interesserà proprio a nessuno dei ventiquattro lettori sapere che chi scrive ha il problema, a casa sua, di una caldaietta guasta: tira avanti da giorni, chi scrive, con pentoloni di acqua calda riscaldati con il gas della cucina, in attesa dell’idraulico. Non tutti vanno a Udine per farsi un bagno caldo.
In Piazza della Libertà, che molto ricorda Venezia, ben dominata dal Leone di San Marco installato su una colonna che invano Napoleone distrusse, proprio di fronte al magnifico Loggiato del Lionello si sta festeggiando l’inaugurazione del Festival Friuli Doc: sono presenti le cosiddette Autorità. A segnalare antichi e nuovi legami, hanno preso la parola anche i sindaci di Graz e di Villach, il primo in buon italiano (imparato grazie a sua moglie, ha spiegato), il secondo in un tedesco che non contiene alcuna tentazione di farsi capire: ma pare che qui le lingue siano sconfinanti, a giudicare dagli applausi e soprattutto dai brindisi.
Ora, avviandomi verso il finale, tocco di nuovo un punto che riguarda soltanto me. Per un malessere, ho dovuto improvvisamente rinunciare al Monte Lussari. Quando si deve cambiare idea all’ultimo istante avendo già caricato lo zaino sul bus, l’animo diviene pesante più dello zaino medesimo: quel monte definito santo, che non ho visto, rimarrà impresso nella mente esattamente come i luoghi visti, e sarà anzi fissato dal timbro dell’astensione. Non ho così avvicinato la Madonna Nera venerata da tre popoli, non ho assistito alla cerimonia religiosa della domenica officiata in tre lingue, friulano, sloveno, tedesco.
Rimasto in albergo qualche ora, è poi giunta la resurrezione: d’impulso sono uscito e ho cercato la stazione, ho preso il treno che raggiunge Gorizia. Nella città totalmente bilingue, in un’apoteosi di frontiere, ho avuto le mie tre ore per vagare e poi salire al Castello con la statua di Michelstaedter e le coppiette di innamorati nel parco.
Arrivando in città avevo varcato, con rispetto, l’Isonzo: tra Udine e Gorizia sono venti minuti di treno, sono stati seicentomila morti. Sono grato, in questa mia fase di recupero e riscatto, alla studentessa, abito e scarpine rosa senza tacco, che senza saperlo mi ha fatto compagnia nel breve viaggio di ritorno, mentre lavorava alla sua tesi sul laptop (Udine, si sa, è importante sede universitaria).
Nell’ultima piovosa mattinata a Udine ho visitato la Galleria del Tiepolo nel Palazzo del Patriarcato: mi aggrego all’ultimo minuto a una visita guidata, vengo accolto con grande calore dalla guida, come se lei aspettasse solo me. Scopro, poi, che quella è visita destinata ai piccoli. Raggiunta una certa età, probabilmente non c’è più gran differenza e così gusto la spiegazione semplificata, anche se devo a metà scusarmi e scappare via perché è l’ora della partenza per Torino. Pare, forse, che finirò sulle pagine Instagram del museo, insieme ai bambini ripresi di spalle. Faccio ancora in tempo ad acquistare per strada un po’ di fagioli della Carnia. E’ l’unico souvenir gastronomico: se non sarò pigro, finiranno a bollire dopo un’adeguata, lunga, immersione in acqua.
Queste giornate intense – come accade nei viaggi veri – hanno prodotto straniamento: venerdì pomeriggio dal finestrino del bus (ora, tornato qui in Sabaudia, non posso magari più chiamarlo “corriera” – ma intanto ho imparato che il “bus”, in Friuli, è il buco) ho rivisto sulla sinistra la collina di Superga e mi è quasi scappata una lacrima da emotività senile, come se quella piccola basilica non la rivedessi da mesi.
A Udine si dice “Mandi, Mandi”. I turisti udinesi a Torino mi avevano avevano già insegnato quel singolare saluto dall’incerto etimo: il suo suono perderà inevitabilmente la componente esotica, avendo ora acquistato un che di molto familiare. Il viaggio vero crea la differenza tra prima e dopo.
Testo e Foto di Eugenio Masuelli |
Nota bene: il testo fa riferimento al trekking organizzato dal Gruppo TAM Torino (sezioni Cai Torino e Cai Uget – Torino), qui sotto la locandina del trekking.